Uccidere: il mio sogno 

 

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Racconto scritto a 4 mani con una sconosciuta per il concorso letterario "Gio Ca".

 

Grenoble - Capitoli dispari - (?????)

Delfino blu - Capitoli pari - (Sergio Cellucci)

 

1. BUSSANO ALLA PORTA - 21/12/09
La donna sgrana gli occhi sul video da cinquanta pollici trasecolando; poi si concentra sullo spillone
e la mano del fachiro. Analizza il riflesso sinistro della luce sul metallo deducendo la durezza delle lame
affilate e la loro capacità a infliggere ferite drammatiche.
Lo sguardo di fuoco dell’indiano si accende ulteriormente e comunica che sta per accadere qualcosa
di terribile. Un brivido le percorre la schiena come fosse in preda ad una improvvisa e aggressiva febbre
mortale, quando inaspettatamente l’uomo in turbante apre la bocca e lecca lentamente la superficie
liscia a specchio.
Una voce fuori campo la distrae. Anche il fachiro sembra ascoltare il commento dell’invisibile commentatore
televisivo, indugiando con la punta della lingua su quella dello spillone. Una goccia di sangue
esce dalla carne rosata e scorre sul filo della lama. Altre la seguono e si riuniscono in un rivolo che
giunge velocemente fino alle dita. L’uomo allontana lo spillone dalla lingua e avvicina l’altra mano. La
muove lentamente, senza toccare la lingua, e il sangue sembra bloccarsi come se la ferita fosse cauterizzata.
Tira un sospiro di sollievo e quando sta per scacciare del tutto la tensione, il fachiro riavvicina lo
spillone al viso e lo inserisce senza tentennamenti in una narice.
Trasale mentre la voce fuori campo si diffonde con tono ancora più solenne e cattedratico. -Fuggire
dal dolore, questo insegna la medicina occidentale, ridurre, sedare, narcotizzare eliminare i segni del
malessere. Nessuno ha più la pazienza di soffrire ed ogni volta sembra che l’uomo si dica: “Ma come,
non posso permettermelo, devo volare a Pechino domani!”. Questa altro non è se non la comune istintiva
reazione di fronte alla manifestazione di un male. Naturalmente e per fortuna non è così dappertutto.
La medicina cinese, ad esempio, impone di fermarsi, di restare sul dolore, di trattare il Ben, ovvero
la radice, per curare il Biao, cioè la fronda, senza rimuovere il Biao”.
Ines continua a prestare attenzione a ciò che quella voce spiega suggestivamente ed avvicina le mani
al petto; sfiora i seni; accavalla le gambe; si sfila la maglietta e si sventaglia provando finalmente refrigerio.
Trattiene gli occhi chiusi per qualche secondo. Respira a fondo e si concentra sulla voce: -Occorre
fare del dolore una guida: non spegnere i recettori che ti permettono di seguirlo per arrivare a toglierlo
con la sua causa.
La giovane riapre i suoi splendidi occhi blu e fissa lo schermo allibendo: il fachiro spinge lo spillone
in su, verso il cervello, senza alcuna contrazione del volto, apparentemente senza provare dolore.
Ines scrolla le spalle, si alza, spegne la televisione, afferra la borsa ed esce.
Non le pesa lasciare la tana, dove vive con Simone e in cui si sente protetta. Deve andare, ha voglia
di rischiare. Non l’ha fatto mai di notte, mai dopo la mezzanotte.
Quando arriva sul binario numero tre sente lo spostamento d’aria del treno che corre veloce verso
nord. Appena il treno la supera del tutto, lancia lo sguardo verso i binari coperti dal treno in corsa. Un
giovane di colore con uno zaino in spalla la vede immediatamente.
Non si scompone; lo guarda spavaldamente e fa segno di raggiungerla. Mentre il giovane salta sui
binari, si allontana verso i bagni e non si avvede di altri due giovani che si accodano all’altro. Ridono
sguaiati. Lei si gira e sorride nel momento in cui varca la soglia illuminata da una luce sfarfalleggiante.
I tre entrano poco dopo e la trovano ritta, a gambe divaricate, piegate sulle ginocchia. Impugna una pistola
dal metallo brunito. Con un imperioso: “Consegnatemi i portafogli”, fa sparire i sorrisi dai volti
scuri e si appropria dei soldi che contengono senza smettere di puntare l’arma ad altezza d’uomo, muovendo
la mano lentamente in senso orizzontale. Scruta gli sguardi perplessi dei giovani e li tranquillizza
con un ampio sorriso. Si passa la lingua sulle labbra, li fa accostare al muro, gli ordina di girarsi e fugge
nella notte, piangendo e ridendo contemporaneamente.
Simone dorme sereno. Vive con Ines un rapporto intenso sin da quando si sono conosciuti, senza
smagliature, pur avvertendo un leggero malessere quando lei scompare e ritorna stravolta ed evidentemente
felice. Non ha mai voluto indagare e, intuendo qualcosa di estremamente conturbante, ha
scelto di non interferire. D’altronde, egli stesso ha sin da piccolo rivendicato il diritto ad essere libero
da condizionamenti familiari o d’amore.
Ines entra in casa, avvertendo addosso l’odore della paura e della gioia. Sa di essere sudata, ma non
vuole eliminare le tracce della trasgressione e vuole mischiare quegli odori pungenti con quelli più delicati
di Simone.
In silenzio osserva quel corpo nudo in posizione fetale. Si avvicina lentamente, senza alcun fruscio.
Si libera della maglietta; l’accosta alle narici respirando le essenze rimaste attaccate alle fibre; rivede
quei tre giovani spaventati. Si sente forte e li immagina ancora tremanti. Si libera della gonna e degli
slip; Simone si gira dall’altro lato. La donna ammira la schiena muscolosa, i glutei sodi, le gambe pelose.
Torna a vedere gli altri tre. Li immagina di fronte a un poliziotto, intenti a descriverla. Ma cos’altro potranno
raccontare se non di una canna brunita e due occhi decisi?
Scatta e impugna la pistola appena sente bussare alla porta.
 

 

2. LA PORTA SI RICHIUDE SGARBATAMENTE - 28/12/2009
Ines era sicura che nessuno l’avesse seguita.
Durante la fuga si era voltata più volte, aveva fatto giri viziosi e guardato mille volte attraverso lo
specchietto retrovisore della sua autovettura.
Come potevano averla già rintracciata?
Non aveva commesso sciocchezze, era stata fredda, lucida e calcolatrice.
Era sempre lucida. Lo stato di eccitazione che raggiungeva non la portava mai ad abbassare la guardia.
Ormai erano mesi che all’improvviso, come spinta da un raptus, usciva dalla tana per seguire il suo
istinto animalesco. Non lo faceva spesso, ma una o due volte al mese all’improvviso si truccava, si vestiva,
prendeva la pistola di cui Simone ignorava persino l’esistenza, e usciva.
Perché facesse tutto questo era un mistero perfino a se stessa, ma non poteva farne a meno.
Forse le piaceva quel misto di paura e spavalderia, forse aveva bisogno di sentirsi forte, prepotente,
di saper dominare le situazioni a rischio, o semplicemente le piaceva quel brivido lungo la schiena che
provava ogni volta che si trovava in quella situazione.
Se fosse stata un uomo lo avrebbe fatto senza neanche un’arma, ma lei non era un maschio, anzi
tutt’altro. Era molto affascinante, seduttiva, sexy e questo unito alla pistola ne faceva una miscela esplosiva.
Per lei era solo un gioco. Non lo faceva per i soldi, perché ce l’aveva con gli uomini o con la gente
di colore. Per lei contava solo sentire l’adrenalina salire a mille. Le dava un piacere immenso vedere
occhi impauriti, volti sbalorditi, corpi tremanti e sguardi pieni di odio. Era questo che la eccitava.
La eccitava molto di più che fare sesso con Simone. Fra loro non c’era mai stato vero amore, ma
avevano avuto fin dall’inizio un’intesa sessuale quasi perfetta, anche se poi lei si lasciava andare a qualche
“scappatella”, come quella volta che si infilò nel bagno di un treno insieme ad un signore appena conosciuto,
o quando diede un passaggio ad un ragazzo e invece di portarlo a destinazione prese la via
del desiderio lasciandolo poi stupito in mezzo ad un bosco freddo e buio.
Ines aveva un bisogno irrefrenabile di “emozioni”, e mentre continuavano a bussare alla porta, lei
già si vedeva con le manette ai polsi, seduta dietro un tavolo con un faro puntato sul viso e una voce
che le ripeteva all’infinito le stesse domande. Si immaginava davanti a un giudice che la condannava
per rapina a mano armata a 10 anni di prigione. Se avesse avuto una buona condotta avrebbe potuto
rivedere il suo Simone non prima di cinque o sei anni…
Ma sarebbe stato ancora lì ad aspettarla?
Simone aveva sempre avuto uno spirito libero e per quanto le volesse bene non sarebbe stato lì ad
attenderla per tutto quel tempo. Quando sarebbe uscita, lo avrebbe trovato nelle braccia di un’altra
donna, e lei a 40 anni cosa avrebbe fatto senza una casa, un lavoro e un affetto?
Alla porta continuavano a bussare sempre con più insistenza, ma i suoi pensieri le bloccavano ogni
muscolo. Era rimasta ferma a due metri dalla porta, immobilizzata dalla paura, ancora con la pistola in
pugno.
Tesa come una corda di violino, pian piano cerca di recuperare un briciolo di lucidità e si avvicina
lentamente alla porta. I passi sono lenti come quelli di un bradipo, una goccia di sudore freddo si fa
largo fra l’insenatura del suo seno, le mani cominciano a tremare, un nodo alla gola la soffoca e la paura
si impadroniscono completamente di lei.
Se quelle sensazioni fossero state volute, mille rapine non le avrebbero dato tale intensità.
Giunta alla porta prova a guardare dallo spioncino e, con grande sorpresa, vede Francesca: la sua
migliore amica e vicina di casa.
Tira un sospiro di sollievo e la tensione scende in un attimo, nasconde la pistola nell’armadio dell’ingresso,
e subito apre la porta.
Francesca è più sconvolta di lei, ha due occhi rossi e lucidi, evidentemente reduci da un pianto.
Ormai il suo rapporto con Franco è alla frutta. Litigano sempre più spesso. Si vede lontano un miglio
che non c’è armonia fra loro.
“Allora Ines, l’hai fatto di nuovo?”
“Si, sono rientrata un minuto fa e mi hai fatto prendere un colpo. Pensavo che mi avessero seguita
e che fossero arrivati fino a me”
“Sai, ho litigato con quello stronzo di Franco e stavo sul balcone a smaltire l’incazzatura, così ti ho
vista arrivare e ho subito capito che lo avevi rifatto…. Dai racconta, com’è andata questa volta?”
“Senti Francesca adesso ho bisogno solo di dormire, poi domani ti racconto tutto…”
“Ok, ma la prossima volta vengo anch’io con te...”
“Ma già te l’ho detto: è pericoloso, ed io non voglio avere rimorsi sulla coscienza…”
“OK, o lo facciamo insieme o spiffero tutto alla polizia…”
“Ma sei proprio cretina… Io adesso vado a dormire, poi domani ne parliamo!!!”
Lo sguardo di Francesca si riempie di delusione e con molta maleducazione, la porta si richiude
sgarbatamente sul suo viso.
 

 

3. BUSSANO ALLA PORTA - 29/12/09
Finalmente Ines trattiene il respiro contando fino a sette e visualizzando un mare in tempesta che
lentamente si placa; lascia fuoriuscire l’aria lentamente, tornando a contare con lo stesso ritmo e per il
medesimo tempo, riconquistando la tranquillità.
Con passo felpato, sfiorando la parete meno illuminata dalle luci provenienti dall’esterno, si avvicina
alla stanza da letto, sino a che non rivede Simone.
Il giovane dorme placidamente. Come avvertisse la presenza della donna, ribalta il corpo conservando
la postura fetale, mostrando il petto e il volto velato da una lieve peluria scura. La zona pubica
resta in ombra e parzialmente coperta da una mano. Continua a dormire.
Ines, sorridendo sinistramente, ritorna verso l’entrata; prende la pistola e avvita il silenziatore con
un lieve rumore da attrito. Quando l’operazione è perfettamente compiuta, adatta lo sguardo alle nuove
condizioni di luce e adocchia il borsone della palestra. Si dirige verso l’armadio bianco posto alla destra
della porta, lo apre, impugna la pistola e raccoglie sveltamente qualche indumento; ripone il tutto nella
borsa blu apprestandosi a richiudere la cerniera. Qualcosa la induce a girarsi, conservando la medesima
posizione dei piedi.
Simone è a pochi passi da lei, ormai in piena luce, nudo, sorridente, con le mani sui fianchi: “Tesoro,
ma che modi sono questi? Anche se sai che dormo con i tappi, dovresti evitare il frastuono. Meriteresti
una punizione. Ma voglio essere buono: ritornerò immediatamente a letto, chiuderò gli occhi e conterò
fino a dieci. Sarà il momento entro il quale dovrai essere distesa accanto a me, nuda, pronta a dar fondo
alle tue energie. Altrimenti ti sculaccerò”.
Senza attendere risposta le gira le spalle e spicca un salto verso il letto.
Ines immagina la violenza della caduta a peso morto sul letto dal tonfo e dal rumore della rete metallica
elettrosaldata e si dirige verso il bagno con il borsone. Lo poggia per terra; si toglie le lenti a
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contatto colorate; si guarda fissamente negli occhi e, prima di strizzarli molte volte, indugia sui riflessi
della luce sul nero simile a quello dei semi di girasole maturi; si toglie anche la parrucca bionda e i suoi
fluenti capelli corvini invadono le spalle; infila i guanti di cuoio e abbranca la pistola con entrambe le
mani; poi la nasconde dietro la schiena impugnandola solo con la destra.
Simone l’attende supino, con le mani sotto la nuca e lo sguardo provocante: “Brava. Hai fatto giusto
in tempo. Ero indeciso se dire dieci o transitarvi attraverso nove e un quarto, nove e mezzo, nove e tre
quarti”.
La giovane lo fissa senza distogliere lo sguardo e: “Simone, devi richiudere gli occhi e aprire la bocca.
Poi ti dirò cosa fare. Ho una sorpresa per te”.
Simone, divertito, esegue. Poi riapre gli occhi: “Non avrai intenzione di mettermi qualcosa di zuccherato
in bocca, spero. Sai che al risveglio amo piuttosto il salato che i dolciumi”.
“Stai tranquillo. Si tratta di una cosa prima fredda, poi calda, molto calda. Fidati di me e non osare
aprire gli occhi”.
Senza attendere ulteriori risposte, gli poggia una mano sugli occhi. Accertatasi che l’altro se ne sta
buono in attesa della sorpresa, sposta la mano sul volto, inserisce la canna della pistola nella bocca, dirigendola
verso l’alto e: “Chiudi la bocca e trattieni il respiro”.
Simone esegue e lei spara simultaneamente.
Ines osserva il bagliore parzialmente contenuto dalla carne e lo schizzo di sangue che si estende
verso la parete; poi torna a guardare la maschera insanguinata per qualche attimo ancora, fino a che il
sangue copioso non si estende verso il profilo del materasso e inizia a colare per terra, quindi si siede
sulla poltroncina rivestita in velluto bordeaux. Non stacca lo sguardo dal corpo riverso, poi chiude gli
occhi.
Sta ben comoda, su quella poltroncina, rivestita con lo stesso colore della giacca più amata da suo
padre, quella che più s’intonava al suo sguardo caldo, al suo modo di essere nel rapporto con lei piccola
e con i suoi due cani meticci. E ricorda le corse sulla spiaggia, le escursioni in montagna, il suo ripetere
Mi raccomando, dovrai fare sempre così, sempre vestire a cipolla, portare qualcosa da mangiare e da
bere, indossare calzettoni e scarponcini.
Uno spicchio di luce riflessa penetra dal balcone e la illumina.
Ines continua a starsene ad occhi chiusi; accavalla le gambe; tamburella con le dita sulle ginocchia.
Poi si gira verso lo specchio ammirandosi e con voce serena si parla ammiccando: “Bene, cara Ines.
Da adesso nulla sarà più come ieri; da questo momento sarai Sofia. Si, è proprio un bel nome”.
Osserva l’immagine riflessa sgranando gli occhi e lascia scorrere lo sguardo fino alle caviglie. Poi si
alza; si spoglia; si dirige verso il bagno; si fa la doccia; si trucca; scrive con il rossetto sullo specchio
Francesca, sei solo una stronzetta. Impara come si fa; prende il borsone; ripone la pistola e varca la
soglia di casa a passo lesto, maestosa sui tacchi a spillo, avvolta in uno stretto vestito nero e calze in
seta.
La sua vecchia Alfa Sud rossa parte al primo colpo di acceleratore, svolta a destra e scompare in direzione
del lungomare.
 

 

4. CON UN SORRISO MALIGNO SOFIA ENTRA E RICHIUDE LA PORTA DIETRO DI LEI - 04/01/2010
L’Alfa Sud viaggia senza una meta nella città che si sta svegliando. Le strisce bianche che delimitano
le corsie scivolano velocemente una dopo l’altra, ma i pensieri corrono molto più della sua auto. Mentre
guida con calma innaturale, un senso di onnipotenza si impadronisce di Ines, anzi di Sofia. Il grande
balzo ormai è stato fatto. Lei se lo aspettava, erano giorni che ci pensava. Uccidere era diventata una fissazione,
non le bastava più rapinare, umiliare e deridere le sue vittime. Voleva qualcosa di più stimolante,
di più adrenalinico, di più eclatante. L’omicidio era ormai nell’aria. La sua prima vittima poteva essere
un extracomunitario, una prostituta o una qualsiasi persona incontrata per caso, ma vedere scorrere il
sangue era quello che desiderava più di ogni altra cosa. Così, quando le venne l’idea di uccidere Simone,
non si meravigliò più di tanto. Le voleva bene, ma il suo istinto bestiale era più forte di ogni legame.
A gesto compiuto non si sarebbe mai aspettata tutta quella calma interiore. Sembrava come se
l’avesse fatto chissà quante altre volte nella sua vita. Non avrebbe mai creduto che fosse così facile passare
da incallita rapinatrice a spietata assassina.
In un millesimo di secondo aveva premuto il grilletto della pistola, ma con la stessa velocità aveva
capito che quel gesto così rapido, voluto, desiderato ed allo stesso tempo inatteso, avrebbe influenzato
ogni secondo, ogni minuto, ogni ora, ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, ogni anno della sua vita.
Ormai niente è più come prima. Cosa l’aspetta? Come saranno le sue giornate? Come e dove vivrà?
Non ha più certezze.
Ma cosa le importa? Ines è morta e sepolta, e dalle sue ceneri è nata una donna sicura, onnipotente
che può decidere sulla vita e sulla morte degli altri.
Questo è ormai il suo destino e nulla o nessuno la farà retrocedere. L’unica certezza assoluta che ha
è una vita da fuggiasca.
Un futuro di sotterfugi, bugie, tranelli, inganni, trucchi, espedienti, scappatoie e malizie l’aspetta.
Ma questo non le importa niente, anzi renderà la sua vita più viva e sicuramente senza un attimo di noia.
Ormai dovrà stare sempre in guardia, attenta ad ogni movimento e ad ogni più piccolo particolare.
Priva di qualsiasi senso di colpa, continua a vagare per la città, guarda gli occupanti delle altre vetture,
osserva le insegne, si fissa sui tergicristalli che scandiscono il tempo come un metronomo anche se
non c’è una musica da suonare.
Neanche un pensiero è rivolto a Simone.
Quel gesto era stato dettato soltanto da un istinto innaturale. Gli animali uccidono per fame, per
difendersi, perché si sentono minacciati, mai per il gusto di uccidere. Sofia voleva confermare a se
stessa che non aveva limiti, che poteva vincere qualsiasi sfida. Simone era soltanto un uomo che si era
trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato e soprattutto con la persona sbagliata. Lui, ingenuo,
non aveva mai capito nulla di lei, dei suoi bisogni e dei suoi istinti.
Ormai nella mente di Sofia c’è soltanto il desiderio di rifarlo.
Non le importa correre rischi, non calcola le probabilità di essere scoperta e rintracciata.
Prima che il cadavere venisse rinvenuto potevano passare al massimo due o tre giorni, poi qualcuno
si sarebbe preoccupato per la sua scomparsa e quella di Simone e avrebbe dato l’allarme. Dapprima
l’avrebbero considerata vittima di un sequestro, ma poi avrebbero capito che non c’era nessun movente
e allora sarebbero risaliti al vero autore di quel delitto. La sua pistola non era denunciata, ma i mille
piccoli indizi che aveva lasciato inavvertitamente dietro di se sarebbero diventate prove soprattutto se
Francesca avesse parlato.
Sì Francesca, sua amica e rivale.
Lei, piccola stupida che voleva imitarla. Era una vita che cercava di emularla senza mai riuscirci.
Non aveva stoffa, era goffa, insicura, indecisa… Si vestiva come Ines, si truccava come lei, comprava
le stesse cose, leggeva gli stessi libri, andava a vedere i film che erano piaciuti a Ines. Cercava in questo
modo di conquistare la stima della sua amica, ma Ines, anche se non glielo faceva notare, aveva tutto
un altro stile.
Comincia a balenare nella mente di Sofia l’idea di giocare con la sua stupida amica come fa il gatto
con il topo. In fondo era stata lei a chiedere di diventare sua complice. Chissà, magari avrebbe potuto
addossare a lei la colpa dell’omicidio.
Per il momento lascia morire quell’idea, pronta a resuscitarla a seconda di come si sarebbero svolte
le cose.
Ormai si è fatta l’ora di pranzo e lei comincia a sentire i morsi della fame.
Posteggia l’Alfa sud nel primo centro commerciale e si confonde fra la gente che è intenta a fare
compere.
Si siede su uno dei pochi tavoli liberi di un ristorante e dopo aver ordinato un secondo con contorno
comincia a mangiare. Un signore che è vicino al suo tavolo non ha occhi che per lei. La guarda avidamente
e osserva ogni suo più piccolo movimento. Il suo sguardo, carico di desiderio, la spoglia dalla testa ai
piedi. Lei sta al gioco e comincia ad allargare le gambe fino a mostrare i merletti della sua minuscola
mutandina per poi richiuderle di colpo appena lui comincia ad intravedere l’oggetto del piacere.
Il gioco dura qualche interminabile minuto e alla fine l’uomo si fa coraggio e si avvicina a lei.
“Permette se mi siedo vicino a lei?”
“Ma certo, mangiare da soli è una cosa deprimente…”
“Mi chiamo Marco.”
“Piacere Sofia.”
Ormai il ghiaccio è rotto e l’uomo già vede cadere la sua preda, non sa però che nella giungla urbana,
il passo da preda a predatore è così breve e a volte chi crede di poter mangiare, viene mangiato.
Sofia alterna sorrisi a occhiate dolci e quando Marco la invita a prendere un caffè a casa sua, lei accetta
con un sorriso malizioso.
Decidono di lasciare la macchina di lui al parcheggio del centro commerciale e durante il viaggio,
fra una risata e una battuta scherzosa, Marco inizia a frugare fra le cosce tornite di Sofia. Lei lo lascia
fare con immensa gioia di lui. Arrivati sotto casa, lui apre il portone e la invita a prendere l’ascensore.
Appena dentro, con un balzo felino, Marco introduce la lingua nella bocca di lei e comincia a muoverla
e girarla come fosse un frullatore. La prima cosa che Sofia avverte è un grande tanfo di fumo che
impregna gli abiti di lui, poi sente il suo alito puzzolente entrare nei suoi polmoni. Smette così di respirare
e con grande self-control trattiene il grande disgusto che prova per quella persona a lei sconosciuta.
Giunti sul pianerottolo Marco già pregusta i piaceri del sesso, chiude la porta dell’ascensore e
apre in un secondo quella di casa.
Con un sorriso maligno Sofia entra e richiude la porta dietro di lei
 

 

5. LA PORCHE - 05/01/2010
La Porche. L’uomo, con postura ingobbita, procedendo di fianco, come un attore sul palcoscenico,
avanza spavaldo verso la stanza da letto, lanciando qualche occhiata per osservare l’incedere di Sofia.
Tranquillizzato dal rumore costante dei tacchi a spillo, dallo sguardo e dal sorriso, datele le spalle,
apre parzialmente la porta massiccia e si appresta a varcare la soglia. Poi ci ripensa; le da la precedenza
con un inchino e un gesto a semicurva del braccio.
Sofia gli sorride mostrando la dentatura perfetta. Lo fissa negli occhi. Del tutto inaspettatamente
spinge ulteriormente la porta e si diffonde un lieve cigolio dovuto ai cardini evidentemente arrugginiti.
Lei copre il rumore con la sua voce che giunge inattesa come un fulmine a ciel sereno: “Ti piacerebbe
sculacciarmi? O preferisci lo faccia io?”.
Marco deglutisce e tossisce, come assalito da una improvvisa angoscia. Sofia prosegue con tono arrembante
e tagliente: “Non dire nulla. Ho capito il tuo genere: ami guardare e usare manette. Sono
certa che ne hai di quelle in pelle. Tirale fuori, altrimenti vado a prenderle”.
Finalmente Marco trova la forza e: “Ne ho avute, si. Adesso ne sarei sprovvisto. Potrebbe andar bene
della corda, per non perdere tempo? Non vorrei essere frainteso. Confesso di sentirmi un po’ inadeguato,
ecco, l’ho detto! Ma se mi graffierai e mi prenderai a parolacce, riuscirò a tirar fuori un po’ di carattere”.
Sofia controlla il moto di schifo e: “Tranquillo, ti farò di più e senza perdere tempo”.
Facendo seguire i fatti, si sfila il vestito e si strappa le mutande con un gesto deciso. Il rumore secco
dell’elastico spezzato allerta l’uomo. E lei, con tono complice, lo tranquillizza: “La tua auto, qual è?”.
Marco strizza gli occhi come volesse ricordare meglio e: “È una Porche nera, parcheggiata poco
più in là dove era la tua. La targa…”.
La frase è interrotta da un gesto e dalla voce: “Non occorre. La corda dov’è?”.
Senza più parlare Marco sgambetta e ritorna quasi di corsa mentre Sofia si adagia sul letto.
Lui, stupito, ha un baluginare tremulo negli occhi dovuto alla luce proveniente dalla finestra. Si avvicina
e il parquet scricchiola sotto le suole pesanti delle scarpe eccessivamente lucide.
Una solitaria raffica di vento penetra da qualche spiffero e porta con se quasi un suono sinistro. In
lontananza si sentono delle campane. Sofia scende dal letto, si avvicina, lo spinge con decisione ed
esclama: “Sono campane a morto”.
E lui: “Come?”.
“Stanno suonando campane a morto. Domani ci sarà un funerale”.
Il guizzo di luce si spegne negli occhi dell’uomo.
Lei si sfiora il seno con una mano e la luce ricompare.
Per un attimo ancora Sofia indugia sull’aureola e poi: “Spogliati, stronzo!”.
Marco lo fa meccanicamente, rimanendo in slip e calzettoni lunghi fin sotto le ginocchia.
Sofia sbotta: “Ci avrei scommesso. Uno come te non poteva che indossare quel tipo di calzettoni.
Toglili, prima che gli dia fuoco”.
Marco esegue come un cagnolino.
E Sofia modifica ancora il tono di voce, enfatizzando la dolcezza della sua esse: “Scommetto che
non sei mai stato sposato. Sbaglio?”.
“No. Non sbagli. Oltretutto sono solo, non ho nessuno al mondo. Ho scoperto a trenta anni di essere
stato adottato e pure i genitori adottivi sono morti. Tutto accadde in un incidente stradale. Guidavo io
e feci una inversione in autostrada. Sopraggiunse un camion e non riuscii ad evitare l’impatto. Morirono
entrambi davanti a me. Mia madre fece in tempo a dirmi dell’adozione e delle mie origini lucane”.
“Poverino. Come mi dispiace, meriteresti un bel premio. Iniziamo a dartelo. Hai ereditato bene, deduco.
E scommetto che in qualche posto in questa casa è nascosta una cassaforte”.
“Si, dietro quel Guttuso. La combinazione è 789897678654367891. Non dirmi che non volevi la
dicessi. Non ci crederei. E non dirmi che l’hai già memorizzata”.
La donna si accuccia al suo fianco e si mette a ridere: una risata roca, greve e benevola. Con fare deciso
e contrastante con la voce, gli lega la corda intorno al collo stringendo fino a costringerlo a boccheggiare.
E: “Bene. Che il rito si compia”.
Sotto lo sguardo paonazzo, gli occhi quasi fuori dalle orbite, salta dal letto con agilità inaspettata e
con eleganza sposta il quadro di Guttuso, in cui è ritratta la sua musa Marta Marzotto, sullo sfondo di
pescatori al lavoro.
Compone la combinazione senza incertezze guardando l’altro e: “Facile, davvero facile la combinazione
da te escogitata. Basta applicare il codice alfabetico che insegnano in qualsiasi corso di mnemotecnica e
si possono ricordare anche centinaia di numeri. Non è proprio il caso di spiegartelo, che non potresti più
usarlo, ma si tratta di trasformare i numeri in suoni, consonanti contenute in piccole parole, e da queste
ricavare delle immagini mentali. Ora sto rivedendo quella serie di immagini. Fatto. Ascolta tu stesso”.
Il tac giunge anche a Marco. Prende ad agitarsi; poi inizia a gridare. Sofia si guarda intorno, si china,
afferra i suoi slip e quelli di Marco, li appallottola e glieli infila in bocca. Gli molla una sberla violenta e
svuota la cassaforte, complimentandosi per i gioielli e i molti fasci di cartamoneta legati con elastici verdi.
Infine estrae le chiavi della Porche dai pantaloni, impugna la pistola, libera la bocca dell’uomo, vi
inserisce la canna, spara.
Lascia la casa con passo spedito verso l’auto che sarà la sua solo fino al parcheggio, fino alla Porche.
 

 

6. APRE LO SPORTELLO, RIMETTE IN MOTO E SI AVVIA SULLE BUIE STRADE DELL’IGNOTO - 07/01/2010
Viaggiando verso il parcheggio del centro commerciale Sofia pensa a tutto quello che era successo
nelle ultime ore. Ha ucciso due persone, è in possesso di numerosi gioielli, di una borsone pieno di
banconote di grosso taglio e nella sua borsa ha le chiavi di una Porsche.
“Niente male”, pensa fra se e se.
Sa di non poter usare l’autovettura a lungo perché correrebbe il rischio di essere scoperta, sa anche
che i gioielli potrebbero ricondurla all’omicidio di Marco, ma il denaro è pulito e con tutti quei soldi
può fare una vita da principessa per molto tempo.
Mentre passa davanti la stazione ferroviaria le viene un’idea. Lascia la vecchia Alfa sud nel parcheggio
custodito e si dirige verso un negozio di telefonia. Compra due sim e due costosi telefonini. Alla richiesta
dei documenti per registrare le sim si inventa che li ha dimenticati a casa fornendo generalità
false. All’uscita del negozio copia alcuni numeri telefonici in uno dei cellulari nuovi e butta il vecchio
in un cestino, poi si dirige alla fermata dei taxi e sale sul primo libero.
Il tassista, un signore di mezza età, quasi intimidito dalla sensualità della donna le chiede la destinazione
e accenna a un piccolo scambio di battute, ma Sofia comunica freddamente il punto di arrivo e subito
dopo lo zittisce con un’occhiata piena di veleno facendo capire al tassista che non vuole essere disturbata.
Capita l’antifona, di tanto in tanto, l’autista si limita a lanciare occhiate furtive dallo specchietto retrovisore
senza però proferire parola.
Dal taxi Sofia chiama Francesca e le dice di tenersi pronta perché sarebbe passata a prenderla.
La sua amica comincia a fare una serie di domande ma Sofia taglia corto e le dice di sbrigarsi.
Appena il taxi giunge a destinazione Sofia richiama Francesca e la invita a scendere.
Salita sul taxi Francesca comincia la sua tiritera. Si lamenta di Franco, del suo egoismo, di come la
tratta male, di tutte le cose brutte che le dice, di come la sminuisce, del pessimo rapporto che hanno e
così via.
Sofia la conosce bene e la lascia sfogare, ma quando il taxi si ferma al centro commerciale le intima
di stare zitta.
Paga la corsa lasciando il resto al tassista che la ringrazia.
A Francesca sembra assurdo lasciare così tanti soldi di mancia e l’apostrofa con un:
“Ma che sei scema? Gli hai lasciato una fortuna!”
“Non ti preoccupare, i soldi non sono più un problema.”
“Allora è per questo che mi hai portato al centro commerciale? Andiamo a fare shopping? Che mi
regali di bello?”
“A dire il vero un regalo te l’ho già fatto. Non volevi essere mia complice?”
“Si, ma…”
“Comunque non ti preoccupare, te l’ho fatto veramente un regalo.”
“E cos’è un profumo? Un vestito? Una borsa? No, ho capito, è quel cappotto che mi piace tanto”
“No Francesca è molto di più.”
“Allora dimmi, non farmi stare sulle spine.”
“Ti regalo la libertà.”
“Ma che dici?”
Intanto si avviano nel punto dove Sofia pensa che sia posteggiata la Porsche. Appena giunti, come
un cigno attorniato da brutti anatroccoli, una lussuosa 911 cabriolet color nero si distingue fra le utilitarie
che la circondano.
“Guarda che bella!” esclama Francesca.
“E’ tua!”
“Grazie, ma anche se me la regalassero non saprei come mantenerla.”
“E che ne dici se la mantenessimo con questi?” così dicendo apre il borsone dove aveva messo le
banconote e i gioielli.
“Cazzo, ma hai rapinato una banca?”
“Di più!”
“Ma da dove sono usciti fuori tutti quei soldi?”
“Non ti preoccupare, non volevi essere mia complice?”
“Si ma…”
Non fa in tempo a terminare la frase che Sofia tira fuori dalla borsa uno dei due cellulari novi e le
chiavi della Porsche. Preme uno dei due pulsanti posti all’interno della chiave principale e la macchina
emette due brevi lampi accompagnati da due fischi acuti come a dire: “accomodatevi principesse, dove
andiamo oggi di bello?”
Sofia apre lo sportello di guida a Francesca, la invita a salire e le porge delicatamente sia il cellulare
che le chiavi della lussuosa autovettura.
“A te madame.”
Francesca non crede ai suoi occhi e quasi inebetita si siede al posto di guida.
Appena inserita la chiave nel quadro, il motore ruggisce come un leone dietro le sbarre aspettando
soltanto di uscire dalla gabbia per poter correre libero e veloce sulle autostrade dell’opulenza e del
lusso. Francesca fa fatica ad inserire la prima, poi delicatamente stacca la frizione, ma il delicatamente
non era abbastanza perché le ruote fischiano forte senza che la macchina si sposti di un centimetro lasciando
però una nuvola di fumo bianco dietro la vettura.
Un capannello di persone si forma vicino alla 911 cabriolet e tutti aspettano di rivedere lo stesso
spettacolo.
“Calma Francesca, questa non è mica la tua panda.”
“Ok ci riprovo.”
Questa volta il piede sinistro si alza con molta più delicatezza, mentre il destro sfiora appena il
pedale dell’acceleratore. Anche questa volta le ruote fischiano ma la Porsche con un piccolo balzo in
avanti inizia a muoversi. Le persone che si erano fermate per osservare l’auto e le sue due occupanti
rimangono un po’ deluse da quella partenza quasi normale riprendendo ognuna la propria direzione.
Francesca ha punti interrogativi grossi come una casa e una valigia piena di domande, vorrebbe
prendere la chiave per aprirla ma ha una paura fottuta di essere travolta dalle risposte. Guida senza una
meta nei viali della città e non crede ai suoi occhi. Le persone si girano a guardare lei, la macchina e la
sua amica. Mai l’avevano guardata con quel senso di invidia, rispetto, riverenza e ammirazione. Tutti le
davano la precedenza anche quando non ne aveva diritto. Ripensa alla Panda e a tutti gli stronzi che
non si fermavano agli stop costringendola alle più assurde manovre per passare anche quando ne aveva
diritto.
A occhi aperti comincia a chiedersi se tutto sia vero o se sia soltanto un bel sogno. Certo se i sogni
si potessero scegliere lei avrebbe preferito quello ogni notte. Sarebbe andata a letto alle 21 e non avrebbe
fatto alcuna fatica ad addormentarsi. Non avrebbe neanche sentito il russo di Franco e il televisore a
tutto volume dei vicini.
Ogni tanto si gira a guardare Sofia, ma non le parla per paura che si smaterializzi. E’ convinta che
prima o poi si sveglierà e, come al solito, ad aspettarla saranno solo le rate della panda, il mutuo della
casa, Franco sempre più insopportabile e uno stipendio che, giorno dopo giorno, perde il suo potere
d’acquisto.
In un attimo era stata proiettata nel mondo che lei aveva sempre sognato. Questa era la vita che
avrebbe sempre voluto fare, e ora che stava vivendo tutto quello che aveva sempre desiderato lei aveva
un senso di nausea, un vuoto allo stomaco e una voglia di scappare.
Se fosse stato soltanto un sogno lo avrebbe accettato ma quella realtà era imbarazzante, pesante,
fuori luogo, le metteva paura, non c’era abituata, era decisamente troppo per lei.
Accosta la Porsche, apre lo sportello e con un sospiro di sollievo scende dall’auto.
“Ma che fai Francesca? Dai risali che ti dico quello che faremo, o te la stai già facendo addosso?
Non mi avevi detto che eri pronta?”
“Si, ma…”
“Allora che fai sali o me ne vado da sola?”
“No, salgo.”
Apre lo sportello, rimette in moto e si avvia sulle buie strade dell’ignoto.
 

 

7. L'IGNOTO, LA LUCE E LA CONOSCENZA ESOTERICA

L’ignoto, la luce e la conoscenza esoterica. Sofia sa cosa vuole e quale punizione attenda Francesca.
Ammira la conquistata perizia con cui aziona i pedali, la naturalezza con cui segue la linea delle curve
imprimendo lievi movimenti allo sterzo nero, ama i riflessi che incrociano lo sguardo intenso quando
punta lo specchietto retrovisore. E sa come raggelarla: “Francesca…”.
L’altra, con prontezza felina: “Si? Dimmi, dimmi tesoro…”.
“Certe espressioni avresti dovuto riservarle a quel pederasta di Franco…”.
“Pederasta? Non è vero, caso mai misogino…”.
“Misogino! Ti pare che uno dedito a imbottire il portafogli di foto di bimbi nudi da soli, in compa-
gnia di adulti nudi e in scene di sesso sia misogino? Che abbia solo avversione verso le donne?”.
“Ma che cosa dici, avrai sognato? Quale sostanza hai assunto!”.
“Se userai un’altra volta questo tono con me ti sparerò nelle tempie”.
Francesca ruota la testa in modo sufficiente a incrociare lo sguardo dell’altra, capire che non scherza
e concludere sia necessario assecondarla. Intravede i rischi che sta correndo e addirittura la sua fine.
Ammutolisce e resta in attesa di qualcosa che le appare ineluttabile. Sposta lo sguardo sulla striscia di
asfalto nel momento in cui un fulmine squarcia il cielo. La paura che prova risulta essere marginale rispetto
ai brividi che stanno percorrendo la schiena.
“Francesca, sono poche le alternative che posso concederti: I- Puoi ritornare a casa, sparare a Franco,
fare le valige e correre più velocemente che puoi cercando di evitare che io ti raggiunga e ti ammazzi,
sapendo che t’inseguirò ovunque, fino a che non ti ammazzerò; II- Scegliere la sostanza che desideri ti
inietti per morire subito, dirmelo, scendere dall’auto, inginocchiarti e attendere lo faccia; III- Dirmi
immediatamente che è successo dopo la mia scomparsa, che fine ha fatto il corpo di Simone e perché
la stampa non ne ha parlato, morire come vorrò”.
Francesca frena, l’auto sbanda, si arresta vicino al parapetto, al precipizio.
“Dunque il mio destino è morire?”.
“Lo è per ogni essere umano. Ti faccio solo il favore di evitare sofferenze che inevitabilmente ti
fiaccherebbero, fino a suggerire il suicidio. O vuoi suicidarti? Sarebbe un’altra opportunità: ti offro
anche questa, scegli tu. Potrai spararti alle tempie o infilare la testa in un sacco di plastica. C’è un’altra
possibilità: giacché quest’auto è un regalo e io non accetto mi sia restituito, potrai fare marcia indietro,
accelerare, lanciarti nel vuoto. Tipo Thelma e Louise ma senza la Louise e senza possibilità ci sia un
sequel che ti faccia risorgere”.
“Ho scelto. Il corpo di Simone l’ho fatto sparire e ho cancellato la scritta sullo specchio: era un’evidente
confessione. Ho sbagliato?”.
“Si. Non ho bisogno di madri adottive o figlie di puttana che si occupino di me. Erano e sono cazzi
miei. Sarò costretta a contattare gli inquirenti e dire dove sia. Dove l’hai nascosto?”.
“L’ho caricato nella Panda, con la spazzatura di una settima e, cosparso di benzina, gli ho dato fuoco.
Non resta nulla del corpo, giacché lo avevo spogliato di ogni cosa. Un bel corpo davvero…”.
“Dov’è successo?”.
“Nei pressi della discarica, non è restato nulla”.
“Peccato. Ti avrei fatto ingurgitare le sue ceneri! Non c’è altra possibilità. Fai marcia in dietro, su…”.
“Aspetta, amore…”.
Il pugno sui denti le arriva veloce e inaspettato. Francesca piange a dirotto. Le lacrime sgorgano copiose
e rigano il viso. Poi si raddrizza, si fa forza e: “Voglio essere la tua schiava, farò ciò che vorrai per
tutta la vita. Ti prego, io t’amo. Ritorniamo indietro, andiamo a casa, uccidiamo Franco, mangiamolo
se vuoi, ma risparmiami la vita”.
“Pazza! Come ti viene? Mangiare un verme che ha fatto scempio dei corpi di bambini inconsapevoli?”.
“Che dici? Non l’ha fatto?”.
“L’ha fatto. Pagherà le pene dell’inferno. Se insisti ti sparerò qui e gli farò mangiare il tuo corpo”.
“Sei pazza!”.
Francesca non fa in tempo a risentire la eco delle sue parole. La mano destra di Sofia si alza, vede
il dito indice avvicinarsi agli occhi e sente la sua voce cupa, avvinta in sonorità bronzee, profonde come
la notte che le sovrasta: “Sette, sette, tu sei distesa e abbandonata, dolcemente rilassata, sempre più distesa
e rilassata. Guarda il dito, immagina una rosa rossa su sfondo bianco, segui la curva dei petali, respira
profondamente, vedi com’è bella la rosa, come son belle le curve dei petali, sette, sei, tu dormi,
tu dormi, puoi volare, librarti in volo come le aquile, come gli angeli, come le farfalle, come gli aquiloni,
cinque, cinque, cinque, stai bene, sempre più bene, tu vuoi volare, annullarti nel cielo, nelle sfere più
alte del mondo, quattro, quattro, quattro, stai bene, stai bene, tu vuoi volare, preparati a raggiungere il
benessere, le sensazioni più gradevoli mai vissute, la luce, la conoscenza esoterica. Come stai?”.
“Sto bene, mi sento bene, voglio volare, insegnami a volare”.
“Spingi il pedale sull’acceleratore, aspetta che io scenda, è tutta tua questa notte meravigliosa, di libertà
incondizionata. Attendi che io scenda, che la portiera si chiuda e lascia andare la frizione. Ciao,
amore, ciao. Non ci vedremo mai più, ma tu starai benissimo. Addio”.
Con movenze agili Sofia sguscia via dall’auto, segue l’andamento del rombo del potente motore,
vede l’auto avviarsi e lanciarsi nel vuoto. Gira le spalle e orienta lo sguardo verso fari in lontananza,
sempre più vicini.
 

 

8. PER IL MONDO INES BIGNONI È UN FANTASMA - 11/01/10
L’ispettore Esposito è immobile davanti al letto pieno di sangue raggrumato. Diverse persone in
tuta bianca girano per casa frugando in ogni dove. A intervalli quasi regolari un colpo di flash illumina
l’appartamento. Dopo aver osservato attentamente la stanza, l’ispettore inizia a fare domande alla sorella
di Simone:
“Quand’è stata l’ultima volta che vi siete sentiti?”
“Tre giorni fa verso le sedici, di solito ci sentiamo nel pomeriggio. A volte può succedere che non
ci telefoniamo, ma è raro. E’ per questo che mi sono preoccupata. Oggi pomeriggio l’ho chiamato un
sacco di volte sia a casa che al cellulare e non mi ha mai risposto, dopodiché sono venuta qui e ho
aperto con le chiavi che mi aveva lasciato. Appena ho visto questo casino ho chiamato il 113. Che
può essere successo?”
“Stiamo lavorando signorina. Per prima cosa dobbiamo sapere di chi è il sangue, poi possiamo cominciare
a fare qualche ipotesi. Con chi abita suo fratello?”
“Lui ha una compagna, si chiama Ines Bignoni, ma a me non è mai piaciuta.”
“Come mai?”
“E’ una tipa strana, sempre in tiro, altezzosa, un po’ lugubre, molto diversa da Simone. Lui è sempre
sorridente, solare, semplice, a volte ingenuo. Non ho mai capito come facciano ad andare d’accordo.“
“Sa se erano stati minacciati?”
“No, sono persone normali, non farebbero del male a nessuno. Chi avrebbe mai potuto minacciarli?”
“Ci può fornire i numeri di telefono e le targa di entrambi, ci avvantaggerebbe nelle indagini.”
“I numeri di telefono ve li scrivo qui, ma per le targhe devo vedere nella cartella rossa sulla libreria”
“Un’ultima cosa: può darci delle foto recenti?”
La ragazza va prima a scartabellare nella cartella rossa posta su uno scaffale della libreria, appunta
qualcosa su un foglio e poi si dirige verso il cassetto di un armadio e tira fuori cinque o sei fotografie.
“Questi sono i numeri di targa e queste le foto più recenti.”
“Grazie, ci lasci anche il suo numero di telefono. Appena sapremo qualcosa la chiameremo.”
Il commissario sa che in quella stanza si è consumato un omicidio. Gli esami del DNA gli diranno
a chi apparteneva quel sangue e quindi chi è, o chi sono le vittime.
Non c’è stata effrazione, non c’è alcun segno di lotta, non c’è la firma di un maniaco, ma la cosa
strana è che non ci sono il o i cadaveri. Chi e perché avrebbe fatto sparire il corpo/i? Telefona in centrale
e chiede informazioni sulle due persone che abitano in quell’appartamento, da disposizioni affinché
vengano rintracciate le due autovetture, e ordina ai tecnici della scientifica di fargli avere al più
presto un rapporto completo. Stava parlando con un maresciallo per sapere se i vicini avessero sentito
dei rumori strani quando una telefonata lo interrompe.
Si congeda dal subalterno e dopo qualche breve frase conclude la comunicazione con un: “Vengo
immediatamente!”.
“Giornataccia oggi, sbrigatevi tutti che bisogna andare alla discarica. C’è un cadavere carbonizzato.
Cazzo avevo promesso a mia moglie di portarla a cena fuori, oggi è l’anniversario del nostro matrimonio!”
“Commissario, se mi da la sua carta di credito, ce la porto io sua moglie a cena fuori!”
“Brigadiere, faccia meno lo spiritoso e si sbrighi altrimenti non salta solo la cena, ma anche il
pranzo di domani.”
Alla discarica ci sono due volanti con i lampeggiatori accesi. Gli agenti hanno già delimitato un’area
dove al centro si trova una Panda completamente arsa dal fuoco. Il capo pattuglia di una volante gli
va incontro e lo avvisa di aver trovato una tanica di plastica con ancora dentro della benzina. L’interno
dell’autovettura è vuoto ma nel vano portabagagli c’è, in posizione fetale, un tronco umano carbonizzato.
A quello che poteva essere un polso si intravede il cinturino metallico di un orologio da uomo.
“Non toccate niente ragazzi, aspettiamo la scientifica.”
L’aria è umida e c’è un odore acre di carne bruciata. La puzza si estende ben oltre la zona delimitata.
“Chi ha fatto la scoperta?”
“Quel signore laggiù.”
“Lo avete interrogato?”
“Si, dice di passare qui tutti i giorni e ieri quella macchina non c’era.”
“Bene, prendete le generalità e lasciatelo andare.”
“Ok, dopo possiamo andare anche noi? Siamo ben oltre il nostro orario di lavoro e, come sa, non
ci pagano nemmeno gli straordinari.”
“Va bene, ma fatemi avere il rapporto sulla mia scrivania per domani mattina alle otto.”
Pian piano il piazzale si comincia a riempire di auto con i lampeggiatori blu accesi. Ormai è buio
e il suo unico pensiero è a chi affidare le sue incombenze.
Sa che dovrebbe essere lì quando arriverà il magistrato di turno, sa che in quelle circostanze i suoi
uomini prendono ordini solo da lui, sa che le prime ore successive alla scoperta di un delitto sono le
più importanti per risolverlo. Il dovere di commissario gli impone di rimanere lì, ma il dovere di marito
gli impone di andare a cena con sua moglie. Se almeno il magistrato si sbrigasse potrebbe telefonare
a casa ed avvertire del ritardo.
Prende il telefono e chiama la procura. Lo avvisano che il magistrato è partito almeno mezz’ora
prima, si fa due calcoli e chiama la moglie.
“Scusa cara ma proprio questa sera c’è stato un omicidio, tarderò un’oretta”
“Lo sapevo, sempre così, non si può mai contare su di te! Almeno cerca di sbrigarti.”
Fa appena in tempo a mettere il cellulare in tasca che vede l’auto del magistrato. Fa un veloce rapporto
sui due casi della giornata mettendoli in relazione. Il suo fiuto di solito non sbaglia e il magistrato,
che lo conosce bene, gli da carta bianca. Aspetta i primi rilievi della scientifica e poi, dopo circa un’ora,
da l’autorizzazione per rimuovere sia il cadavere per l’autopsia che la vettura per i rilievi del caso.
Al commissario non sembra vero. Appena il magistrato va via prende il maresciallo e lo istruisce
su quello che deve fare, poi tira fuori dalla tasca il cellulare e chiama sua moglie
“Ok amore, qui è tutto sistemato, preparati che fra venti minuti passo a prenderti.”
“Sbrigati che siamo già in ritardo. Avevamo prenotato il tavolo un’ora fa, ora li richiamo e sposto
la prenotazione.”
“Va bene, arrivo.”
Non fa nemmeno in tempo a chiudere il suo cellulare a conchiglia che già squilla di nuovo.
“Cazzo, no!!! In questa città di merda non succede mai niente e proprio oggi che è l’anniversario
del mio matrimonio ci sono due omicidi da risolvere…. Maresciallo, lei continui qui. Appena fatto
mi raggiunga in via Roma con tutta la squadra, c’è stato un altro omicidio, così almeno sembra. E chi
glielo dice adesso a mia moglie?”
“Vuole che la chiami io?”
“No maresciallo, lei pensi a chiamare la sua, sicuramente sarà meno incazzata della mia.”
Squilla di nuovo il telefono e dalla centrale lo avvisano che Ines Bignoni non esiste in nessun archivio,
ne su quello della polizia, ne su quello dell’anagrafe, ne su quello della finanza, ne su quello
dell’INPS, ne su quello della motorizzazione…
Per il mondo Ines Bignoni è un fantasma.
 

 

9. MI SBATTO CHE VOGLIO - 12/01/10
Sofia si piega per riannodare il laccio in cuoio marrone delle scarpe da barca, che hanno già la forma
dei piedi. Ogni gesto è coordinato, studiato, lento. Poi si rialza.
Lo fa con eleganza felina; inspira a fondo e trattiene il respiro. Il petto gonfio, stretto nella polo blu
a maniche lunghe che lascia intravedere i seni a pera e i capezzoli che spingono in l’alto, resta fermo
per almeno trenta secondi, consentendo all’ossigeno di irrorare bene i polmoni. Poi espira lentamente.
Torna a inspirare; l’aria è improvvisamente più frizzante; si raddrizza, stende il corpo allo spasimo, si
eleva sui piedi, stende le braccia in l’alto. Le mani accostano un ramo di carrubo; si avvicinano tra loro;
raccolgono alcuni baccelli neri, secchi; li sfrega l’un contro l’altro e si astrae, come stesse prestando attenzione
al rumore e all’odore. Lo sguardo adesso è cupo, perso nel vuoto. Il fruscio risponde solo ai
suoi comandi, può divenire più forte, attenuarsi, riprendere, farsi musica, sottofondo di pensieri inesplicabili.
Solo i movimenti delle mani danno vitalità ai baccelli che nascondono una potenza immane:
il segreto della vita, forza che lei potrebbe distruggere o far svelare, germinare, trasformare in tronco,
rami, foglie, fiori, per dare altri baccelli e semi. Torna a respirare a fondo. Rivede l’istante in cui l’auto
con Francesca ha spiccato il volo; i fari in avvicinamento; quando si è distesa sull’asfalto, al centro della
strada; risente lo stridore dei freni, una voce alterata e le mani sulle spalle; avverte lo scuotimento
veloce; riprova lo stupore del momento in cui ha alzato la testa, trovandosi vicino il profilo del volto
di Franco illuminato dai fari; risente la voce: “Ines! Che ti è successo? Che ci fai qui da sola? Come ci
sei arrivata?”.
Ha sorriso nel risentire il nome fittizio e non ha dovuto dare alcuna giustificazione. Le è bastato alzarsi,
fingendo chissà quali atroci sofferenze, per bloccare ogni curiosità e preoccuparlo ulteriormente:
“Ti porto in ospedale”.
È stato semplice fingere che tutto era tornato a posto: “Non preoccuparti. Va bene, adesso. Tu,
piuttosto, come mai sei in giro a quest’ora?”.
“Giravo a vuoto; cercavo Francesca. È scomparsa; il suo cellulare prima risultava irraggiungibile,
poi ha bussato senza risposte e da un quarto d’ora non dà segni di vita. Tu che faresti? Scusami, non
dovrei chiederlo proprio a te…”.
“E perché no?”.
“Immagino tu ce l’abbia con me. Sono stato scorretto: ho ceduto al tuo fascino, ti ho pressata con
una corte sfiancante mantenendo due piedi in una scarpa e ti ho allontanata senza dare spiegazioni.
Anche se tu sei stata elegante e non hai chiesto nulla, avrai sofferto. Credimi, c’era una ragione valida:
Francesca è incinta”.
Rivede l’espressione ebete di Franco quando gli ha puntato la pistola alla tempia destra e gli ha detto
seccamente: “Sei un coglione! Non hai capito nulla. Gira, ti faccio vedere dov’è morta. Tra due minuti
la raggiungerai”.
Rivede i gesti automatici con cui Franco ha eseguito l’ordine e risente la voce fattasi acuta: “Sei impazzita?”.
Il colpo di canna sulla nuca l’ha zittito e ha dato l’avvio al suo tremore, divenuto più visibile quando
gli ha detto: “Tira fuori il portafogli”.
Ha provato a resistere:”Perché?”.
Gli ha sferrato un colpo più energico con il manico della pistola; lui è crollato: “Non aprirlo, ti
prego. Ti darò tutto…”.
“Ho avuto quel che volevo e l’ho già aperto”.
“Quando?”.
“L’ultima volta che ti ho scopato. Sono qui le ragioni della fine tra noi e della tua morte”.
Poi gli ha intimato di saltare nel vuoto, sparandogli alla schiena all’altezza del cuore, dicendo: “Sei
solo carne per vermi”.
Sofia adesso entra nell’auto di Franco. Sul sedile accanto c’è un giornale con la foto di Edoardo
Maria Esposito e sei fotografie di bimbi nudi con adulti. In una compare un maschio mascherato. Sulla
spalla destra è tatuato un sole blu: apparteneva a Franco. Infila i guanti chirurgici, prende una busta
bianca e le inserisce delicatamente; strappa il giornale ricavando le lettere che incolla sulla busta: All’esimio
commissario Esposito. Infine disegna con un pennarello rosso un pentagramma con la croce
incoronata e una rosa con cinque petali bene in vista. La richiude commentando: caro commissario
Esposito, da esposto, cioè figlio di puttana. Dovresti essere in gamba, lo vedremo.
Mentre una nuvolaglia scura riduce drasticamente la luce, comincia a grandinare e Sofia mette in
moto, il commissario Edoardo Maria Esposito si sta distendendo accanto a Miriam, la biondissima moglie.
Le sfiora il seno e freme vedendola abbandonarsi come una gatta. Poi s’irrigidisce: la sua borsa è
stranamente aperta. “Mi avete rotto i coglioni tu, il tuo sguardo indagatore, le tue mani che aprono borse
e portafogli e il tuo naso che mi annusa!”. Miriam lo guarda sbalordito; allontana la mano dal pube e gli
sfiora il viso. Lui, con tono adirato, l’allontana:”Sei proprio incorreggibile! Non serve il tuo controllo: io
mi sbatto chi voglio”. Si rinfila i pantaloni; esce sbattendo la porta, dirigendosi verso l’ufficio.
L’agente Ferro è agitatissimo: “Commissario, la cercavamo: è arrivata una busta minatoria”.
“Dov’è?”.
“Dagli artificieri”.
Il commissario ritorna sui suoi passi. Nella stanza sei i poliziotti del Nucleo Artificieri osservano da
lontano la busta indirizzatagli. Si accosta e la guarda. Mentre i tre tentano di bloccarlo, infila i guanti di
ordinanza, l’afferra e l’apre: “Siete dei coglioni! Secondo voi se fosse esplosiva avrebbero scritto con
ritagli di giornali per non essere individuati? E disegnato i simboli dei Rosacroce?”.
 

 

10. L’ASSASSINO AVEVA LE ORE CONTATE. 15/01/10
Il commissario Esposito, per nulla intimorito di quello che potrebbe esserci nella busta, la apre e
osserva con molta attenzione le foto che ritraggono giovani ragazzi completamente nudi e intenti a
fare giochi erotici con un signore mascherato che ha disegnato sulla spalla destra un grosso sole blu
con dodici raggi.
“Maresciallo, venga qui, ma questo non è lo stesso tatuaggio che sta sulla spalla di Franco Ballo, il
cadavere trovato nello stesso burrone dove era finita la convivente Francesca De Cesari?”
“Troppe coincidenze, e io alle coincidenze non ci credo.”
“Certo signor commissario, e quei due poveretti erano vicini di casa di Simone Tordi quello trovato
carbonizzato nella discarica e della compagna Ines Bignoni scomparsa e probabilmente anche lei cadavere.
Mi sa che avremo molto lavoro straordinario in questi giorni…”
“Si, ma ci sono cose che non mi convincono. Controllate se ci sono impronte sulle foto e scoprite
se quest’uomo sulle foto è proprio Franco Ballo e cercate di individuare i ragazzi nel mondo della prostituzione
giovanile. Fatelo in fretta, potrebbe esserci un nesso con i quattro cadaveri di questi ultimi
giorni e non vorrei che se ne aggiungesse qualche altro. Quel figlio di puttana manda al creatore poveretti
come fosse un videogame. Ferro, sono arrivate le perizie sui bossoli?”
“Si, proprio adesso e dicono che è stata la stessa arma a spararli: una Calibro 6,35 browning”
Esposito non ha molti elementi, ma prova a metterli insieme.
Prima di tutto ci sono le foto, poi il tatuaggio, poi il simbolo dei rosacroce e infine le pallottole.
La sua mente frulla come la centrifuga di una lavatrice, quando si ferma ha un quadro più preciso
della situazione.
Sulle foto spera di trovare delle impronte e la conferma che sia proprio Franco Ballo quello nelle
fotografie.
La 6,35 browning è una cartuccia di bassissima potenza. Praticamente è letale soltanto se il colpo è
sparato da breve distanza. Ha però una dote incomparabile: le armi che la camerano possono essere
portate in qualsiasi modo si sia vestiti.
Non esiste bermuda, pantaloncino, camicetta, reggiseno o borsetta da signora che non possa ospitare
una di queste armi. Questo consente di andare armati anche quando l’abbigliamento è ridotto all’essenziale;
consente anche di portare la pistola nascosta nella caviglia, nella tasca o perfino nelle mutandine
di una signora vestita succintamente. Frugando fra l’archivio dei suoi ricordi, molto meglio organizzato
di un computer, il commissario Esposito ricorda un caso di qualche anni prima in cui il figlio di una
delle vittime dell’ “anonima sequestri” riuscì ad occultarne una negli slip, durante le trattative coi sequestratori,
evitando così che fosse individuata durante la perquisizione cui lo sottoposero i criminali.
Il tatuaggio del sole blu a dodici punte era praticamente identico a “ la ruota della medicina degli
indiani d’America”. Il significato però era tutto un mistero. La vita degli indiani era totalmente in balia
degli eventi e dall’alternanza stagionale, che i nativi americani non temevano la morte. La morte era
sentita come parte stessa della vita. Dove per vita non si intendeva la vita del singolo individuo, ma
l’eterna vita del Tutto, di cui, secondo loro, noi siamo solo un frammento. Una volta morti, sempre secondo
loro, si sarebbero ricongiunti all’infinita ciclicità della vita, per cui tutto ritornava al punto di
partenza, ma dopo un processo di trasformazione.
A quale tipo di trasformazione aspirava Franco Ballo?
Ultimo elemento era quel disegno sulla busta. Una stella a dodici raggi, con al centro un triangolo
iscritto in una circonferenza, e dentro questo triangolo una croce con una rosa sotto la quale un uccello
ad ali aperte si strappava il ventre a colpi di becco per nutrire delle sue viscere tre pulcini affamati. Il
tutto circondato da cinque stelle a cinque raggi mentre un’altra, con sette raggi, sorgeva sopra la punta
del triangolo.
La cosa più significativa di quel disegno era la croce, simbolo dell’incarnazione e della morte, ma
anche simbolo di resurrezione e immortalità. In sintesi, saper morire significava rendersi immortale.
Ecco perché una rosa nasceva da un cadavere e dalla morte di un uccello potevano nascere e crescere
tre pulcini.
Il commissario conosceva bene quel simbolo perché era appassionato di esoterismo e massoneria,
e proprio poco tempo prima aveva letto “La leggenda dei simboli” e “I simboli segreti dei Rosacroce”
Che tutte quelle morti fossero un preludio per una rinascita? E quale mente così contorta poteva
assassinare persone innocenti? Soltanto uno psicopatico poteva concepire un piano così mostruoso.
Forse era il caso di farsi aiutare da uno psicologo criminale.
Per lui che era sempre riuscito a individuare i colpevoli di un omicidio, chiedere aiuto a uno psicologo
era un po’ come una sconfitta, ma non aveva alternative perché era in pericolo la vita di altre persone
e non poteva permetterselo.
Telefonò subito a Chiara, e le espose a grandi linee il caso invitandola nel suo ufficio.
Chiara, oltre che una sua collega era la sua più grande amica. Al liceo erano nella stessa classe e
anche dopo l’università si frequentavano con una certa regolarità. Fra loro c’era stata anche una breve
storia d’amore, ma poi capirono subito che era meglio rimanere amici.
Professionalmente Chiara era molto stimata dai colleghi psicologi. Andava spesso ai convegni, sia
come partecipante che come relatrice. I suoi interventi erano sempre apprezzati e l’ascoltavano tutti
con molta attenzione.
Appena giunta nell’ufficio del commissario esordì con un: “Ciao Edoardo, se hai chiesto aiuto a me
significa che è proprio un caso difficile… Dai vediamo se posso aiutarti, cerchiamo di definire un
profilo psicologico dell’assassino. E’ uno vero? O sono più di uno?”
“No, almeno questo è sicuro. Stessa arma per ogni omicidio a parte quello di Francesca De Cesari
che è stata trovata in fondo ad un burrone dentro la porsche di Marco Todini assassinato a casa sua e
con vicino il cadavere di Franco Ballo suo convivente che pare se la facesse con ragazzi di strada…”
“Aspetta Edoardo, altrimenti non ci capisco niente. Fammi prendere il block notes che mi appunto
qualcosa. Comincia dall’inizio di questa storia e non trascurare nessun minimo particolare. Ok adesso
sono pronta”.
Il commissario cominciò a raccontare per filo e per segno ogni minimo particolare, ma più raccontava
e più questa storia sembrava complicata e intrigata.
Le sue indagini per omicidio, fino a quel momento, si indirizzavano verso mariti traditi, balordi di
periferia, strozzini, anziani usciti fuori di testa, ma mai una storia così complicata.
Comunque ormai aveva la collaborazione di uno dei più famosi psicologi criminali.
L’assassino aveva le ore contate.
 

 

11. L’INTERVISTA - 15/01/10
“No, non posso dirvi altro. Sono costretto a comunicare, invece, che la Procura ha secretato gli atti
e disposto il silenzio stampa. Senza trasgredire le disposizioni, posso aggiungere: le indagini proseguiranno
a 360°; ogni pista sarà battuta e ribattuta; saranno adottate le tecniche consolidate, quelle che
sfruttano l’intuito, la pazienza, la perspicacia degli investigatori, non le nuove tecnologie, non saprete
di specialisti informatici che dal cilindro virtuale tirano fuori il nome o i nomi dei colpevoli; non ci saranno
intercettazioni ambientali; non ci saranno maghi associati al pool, non ci saranno grandi esperti
importati dagli U.S.A. E d’ora in poi nessuno del pool chiuderà occhio, che le indagini proseguiranno
di giorno e di notte, sotto il sole cocente e con il gelo, se veramente ci avviamo verso una mini-glaciazione.
Prometto che l’omicida non avrà pace”.
I numerosi giornalisti si lasciano andare, increduli, alla voglia di deridere Edoardo Maria Esposito.
E lui resiste alla voglia d’incazzarsi e mandarli a fare in culo tutti quanti, anche quando un tipo dal
forte accento francese, aggredito dall’urgenza di grattarsi a sangue il mento e le orecchie, come una
scimmia reclusa nelle gabbie dello zoo, seccata da scolaresche con genitori al seguito, segaligno e con
il corpo circondato dall’aureola del menagramo, si alza e: “Commisarrrrriò, l’Eurropà guarrrdà le votrê
tecnicsche d’endagene avec attantion. Eschiuss muà: l’Europa segue avec, uhm, con attenzione…”.
Il commissario Edoardo Maria Esposito si lascia andare: “Giovanotto, tanto per dire che mi pare
lei viaggi verso la sessantina, l’Europa si faccia i cazzi propri! Le dice niente Gilles de Rais, XV secolo!
Almeno cento ragazzi violentati e uccisi. Le dice niente …Lasciamo stare. Non sappiamo nulla. Potrebbe
trattarsi di omicidi seriali per imitazione, di più omicidi slegati tra loro, di suicidi mascherati…
E si potrebbe immaginare che il caso così complesso, tanto da distrarre l’attenzione dai problemi del
lavoro, sia legato ai cosiddetti omicidi oscuri, quelli realizzati in alcune case di cura e in tre ospedali, di
cui nessuno parla: morti ammazzati, di serie b. Per esser leale, io le dico che abbiamo molti problemi,
anche quello connesso alla vita del serial killer: ho il dovere di evitare anche il suo suicidio! Per noi, per
l’ordinamento giuridico italiano, la vita è vita, anche se appartiene al delinquente. Se così non fosse
spareremmo le bombe atomiche dove pensiamo sia la sua tana. Intanto voi fatevi i fatti vostri; oscuriamo
la vicenda. Ma aspettiamoci di tutto: che becchiamo l’omicida per una ragione banale, che si continui
a uccidere e non si trovi il colpevole, che lo becchiamo se lo vuole, che scompare giacché nella sua
loro vita c’è una novità stravolgente che cancella le ragioni per le quali si uccide”.
Il commissario chiude la cartella, inutilmente aperta sulla scrivania di cristallo e tra se e se: “Magari
fosse vero; magari lo Stato fosse con noi e che tutti pensassero essere importante ogni vita”.
°°°
Sofia sorride. Spegne la tv e accende la luce. Infila i guanti chirurgici, afferra una busta; rilegge la
scritta. Incolla i lembi. Legge l’intestazione: Gentile Commissario E. M. Esposito. Sede. Prende il foglio
di carta copiativa e legge: T 3 T, lascia scorrere lo sguardo sulla grande Q che contiene lettere e cifra,
legge a voce alta: lavano e pronuncia le parole 3/ore.
Ripete ad alta voce: tre fra…l’improvviso tuono copre la voce. La luce si spegne.
°°°
Il commissario Esposito, sotto lo sguardo divertito degli artificieri, soppesa la busta. Legge ad alta
voce: Gentile…, si guarda intorno. Tutti sorridono in attesa della battuta sagace, pronti alle invettive colorite.
I sorrisi si trasformano in ghigni acidi; nelle loro orecchie la voce del commissario si agita come
una trivella: “Che cazzo c’è da sorridere? È normale che mi scrivano appellandomi Gentile? Gentile il
cazzo che vi fotte a voi e a lei! Già, a lei! Questa è una troia che vuole prendermi per il culo. Voi ce lo
vedete un rozzo omicida o una gang perder tempo a scrivere frasi arzigogolate, invece di farsi di cocaina
o altre schifezze? Gentile! Io gentile? Mannaggia la morte, a questa la lancerò giù dalla tromba delle
scale, se la becco! Otto piani a testa in giù, tutti glieli faccio fare. Altro che carcere rieducativo, permessi,
buona condotta, visite, riabilitazione o che altro s’inventeranno i suoi avvocati. Si, scommetto che è una
sola, ed è una gran mignotta! È una che non si sposa con l’asino solo perché le strappa le lenzuola!”.
Lo stesso commissario ascolta la eco delle sue parole e trasecola; apre la busta e si avvia verso la
porta con un sommesso: “Scusate, sapete che non la penso così”.
Mentre gli altri ritornano ai sorrisi e si scambiano gesti di sorpresa e liberazione , ruota il corpo e
d’un balzo si avvicina a Ferro. “Giovanotto, ma tu non eri un bravo enigmista?”.
“Si, lo ero e lo sono”.
“Come sei messo con i rebus?”.
“Un campione, sono un campione”.
“E allora dai, che cazzo significano queste lettere e queste cifre?”.
Ferro guarda il foglio e scoppia in una risata fragorosa: “Commissario, ma che è primo aprile? O è
carnevale?”.
“Giovanotto, se sei così fuori è meglio che ti metti in malattia…”.
“Commissario, io non so se dirglielo…”.
“Datemi il fucile a canne mozze, per cortesia, e tu, calati i pantaloni e apri il buco del culo che ti
faccio vedere i sorci verdi!”.
“No, no, commissario, non c’è bisogno. Leggo, eh?, non è colpa mia: tre frati inculavano tre suore.
Il commissario sbatte la porta e si allontana con un diavolo per capello. Gli altri ridono fragorosamente.
°°°
Sofia legge divertita:”Il giovane commissario è nato il…”. E tra se e se: Stessi giorno, mese, anno.
Sicuramente sarà diversa l’ora. Caro commissario, forse non dovrò portarti rispetto perché più anziano.
Però li porti bene i tuoi anni, stronzo! Sembri un giovanotto. Beh, neanche tanto per via dei capelli già
brizzolati sulle tempie. Ma questo aumenta il tuo fascino, direi.
 

 

12. UN DIAVOLO DAL VOLTO DI DONNA - 18/01/2010
“Doppia vela 21 a centrale. Passo.”
“Qui centrale. Dicci doppia vela 21, cosa possiamo fare per voi? Passo.”
“Datemi informazioni su una Mazda CX-7 targata DZ829CV. Passo”
Il maresciallo De Luca smette di scherzare con l’appuntato Gargiulo e si mette a rovistare nel cassetto
portaoggetti della Fiat Punto color verde pisello.
“Qui centrale a doppia vela 21. Tutto a posto, la macchina è pulita, appartiene a un agenzia di noleggio
e nessuno ha sporto denuncia. Passo”
“Tutto a posto un cazzo! Sono il maresciallo De Luca, mettetemi subito in contatto con il commissario
Esposito. Fate presto, è urgente! Passo.”
“OK maresciallo, cerco di rintracciarlo subito e ti metto in comunicazione con lui. Passo”
I secondi sembrano interminabili e il maresciallo De Luca non fa niente per nascondere il suo nervosismo.
Lui che è sempre calmo e che sa dominare i nervi anche nelle situazioni più critiche, ora sente che
c’è qualcosa che non va.
Il suo fiuto di poliziotto non lo tradisce mai ed è stato questo suo sesto senso che in molte situazioni
gli ha salvato la vita.
Sono da anni che il maresciallo De Luca fa servizio di pattuglia sulle auto civetta con targa civile.
E’ un lavoro che a lui piace, che lo fa sentire un Robin Hood urbano. Sempre a caccia di ladri e malviventi.
Se dovesse fare una lista di tutti i criminali arrestati non basterebbe l’elenco telefonico. Forse un
elenco telefonico è esagerato, ma sicuramente ne ha mandati al fresco una moltitudine. Nell’atipicità
del suo lavoro, la maggior parte degli interventi sono normale routine, alcuni però sono stati rischiosi,
azzardati, rocamboleschi e anche pericolosi. Lui comunque non si è mai tirato indietro, neanche quando
spuntavano fuori pistole e fucili di grosso calibro.
Una volta fu ferito lievemente alla spalla destra, ma in un’irruzione presso una raffineria di cocaina
lo colpirono alla testa e stette in coma per quattro settimane. Alla fine, dopo una lunga riabilitazione,
404
gli rimase una cicatrice nascosta fra i capelli e una medaglia laccata d’oro nel cassetto del comodino.
Lo misero in ufficio, ma lui fece del tutto per ritornare al servizio attivo.
Lui non faceva quel lavoro per le medaglie o per lo stipendio. Lui faceva quel lavoro perché lo
amava, perché ripulire la città dalla peggiore feccia dell’umanità era la sua missione, perché voleva dare
un futuro più giusto ai suoi figli, perché doveva dimostrare a se stesso che era più forte dei delinquenti
e della sua paura.
In fondo, fino a quel momento, la fortuna non lo aveva abbandonato, e questo lavoro non si può
fare senza avere in tasca una buona dose di fortuna.
Il suo compagno di pattuglia non capiva perché il suo superiore era così agitato. Lui non vedeva
nessun pericolo, un normale controllo. Questa volta non stavano seguendo pericolosi criminali o brutti
ceffi. Davanti a loro, su un lussuoso e fiammante fuoristrada, c’era una tranquilla signora che probabilmente
andava dal parrucchiere o a fare shopping.
“Pronto maresciallo De Luca, sono il commissario Esposito, mi dica.”
“Scusi commissario se la disturbo ma stiamo seguendo un fuoristrada con a bordo la donna della
foto segnaletica. La Bignoni o Bignani, come cacchio si chiama. Che dobbiamo fare? Continuiamo a
seguirla o la fermiamo?”
“Siete proprio sicuri che sia lei?”
“Si… A meno che non abbia una sorella gemella”
“Dove siete ora?”
“Vicino il commissariato, a piazza Nicosia”
“Ok, fermatela come se fosse un normale controllo e trattenetela fin quando arrivo. Mi raccomando,
state attenti. C’è un assassina ancora in giro e potrebbe essere lei.”
L’appuntato Gargiulo mette la freccia per superare il fuoristrada mentre il maresciallo De Luca pone
la luce blu lampeggiante sul tettino dell’autovettura e contemporaneamente tira fuori la paletta d’ordinanza
sventagliandola come fosse un semaforo rosso. I freni stridono sull’asfalto e la Punto verde
pisello si mette di traverso alla carreggiata impedendo la marcia del fuoristrada. Subito il maresciallo
scende e con la mano sulla pistola d’ordinanza apre lo sportello di guida della Mazda.”
Con un sorriso sensuale da gatta in calore la donna esordisce con un:
“Non sono mica passata con il rosso e non ho neanche ammazzato nessuno…”
“Ci scusi signora, ma è un normale controllo. Sono giorni che rubano questo tipo di vettura. Può
mostrarmi patente e libretto per favore?”
“Io le mostrerei cose ben più interessanti, ma se lei si accontenta di una patente e di un libretto: eccole
qui.”
Prende la borsetta dal sedile del passeggero e fa per mettere una mano dentro quando il maresciallo
gliela strappa e punta la sua pistola d’ordinanza sulla tempia della signora.
“Gargiulo, vedi cosa c’è qui dentro.”
L’appuntato senza un minimo di delicatezza rovescia il contenuto della borsetta sul tettino della
Punto e fra trucchi, agendine, specchietti, sigarette e cose inutili, spunta fuori una minuscola pistola
quasi fosse uno di quegli accendini venduti dai cinesi nei ristoranti di periferia.
“Gargiulo, non la toccare e mandala alla scientifica.”
Nel dire questa frase il maresciallo si gira per una frazione di secondo, ma tanto basta a Ines, anzi
Sofia, per afferrare la pistola del maresciallo e disarmarlo.
“Giù a terra!”
“Non fare cazzate, siamo poliziotti e ti daranno la caccia fin quando non ti avranno ucciso!”
“Zitto, stronzo!”, e rivolgendosi all’appuntato… “A terra anche tu deficiente!”
L’appuntato malvolentieri si sdraia accanto al maresciallo.
Tutto intorno la gente continuava a camminare sui marciapiedi indifferente a quello che stava succedendo,
poi un signore si accorge della scena e comincia a urlare: “Via, via….”.
Alcuni scappano impauriti, altri si rintanano nei negozi vicini, qualcuno si butta a terra, qualche coraggioso
prende il cellulare per chiamare la polizia. Le macchine inchiodano e poi ripartono sgommando.
Sofia nella grande confusione non perde la calma e mentre con una mano raccoglie le sue cose, con
l’altra minaccia i passanti con la pistola del maresciallo.
Il caos che si crea è indescrivibile e quando lei finisce di prendere tutto quello che era nella borsetta
si avvicina al maresciallo e a trenta centimetri dalla sua tempia preme il grilletto.
Il maresciallo, in un millesimo di secondo, rivede tutta la sua vita, da quando era bambino fino ad
un secondo prima dello sparo.
Pensa a sua moglie e ai suoi due ragazzi e la cosa che lo faceva soffrire di più era quella di non aver
saputo dimostrare tutto il suo amore per loro.
Se avesse avuto un’altra vita non avrebbe più commesso quell’errore.
Purtroppo stava staccando il biglietto del suo ultimo viaggio e l’inferno era la sua prossima meta,
ma la dea bendata non lo aveva abbandonato e subito dopo lo sparo riapre gli occhi e vede il commissario
Esposito che a terra tenta di disarmare la donna inferocita.
Torna subito dall’inferno e si getta anche lui su un diavolo dal volto di donna
 

 

13. ODORE DI MORTE
Sofia è un fascio di muscoli. Respira e si riappropria delle forze. Un uomo potente la palpeggia;
tenta di abbrancarla; altre mani la cercano; un tipo piange a un paio di metri. Poi dettagli ininfluenti:
una maschera da tragedia greca insanguinata; puzza di polvere da sparo; una voce carica di odio, tra
grida senza senso, ripete: ora ti fotto. Nel tempo di uno sguardo obliquo che incrocia quello di Esposito,
prende le distanze e lascia che le fibre muscolari richiamino il sangue, preparandosi a scattare. Osserva
il volto del commissario, che fa la scruta con lucidità imprevista. Sofia annulla il resto dal proprio campo
visivo; trasforma la sensazione in pensieri precisi: quello sguardo lo conosce, quegli occhi li ha visti.
Quello sguardo è ciò che vede quando si specchia.
Esposito osserva la donna, attraente anche in quegli attimi, e libera la propria capacità di analisi. Sa
di avere poco tempo per i pensieri che lo distolgono dalla urgenza di frenare quella furia. Si accorge
che lei ha abbandonato per un attimo la resistenza, capisce che sta per fare qualcosa. Fa in tempo a notare
le pupille rosse. Nota che indossa lenti a contatto colorate, che lo sguardo gli ricorda qualcosa, che
forse sono finte pure le sopracciglia. E sente un piede tra le gambe. Un attimo dopo è catapultato all’indietro;
avverte un colpo alla nuca. Sente altri colpi ma non prova dolore. Non avverte altro.
Sofia osserva il corpo in caduta libera; gli sferra un calcio alla nuca; allunga la gamba destra verso la
trachea dell’uomo insanguinato; lo vede crollare; guarda il terzo uomo che piega la testa; a mani unite
colpisce la nuca; poi fugge.
°°°
Decine di giornalisti gironzolano davanti all’ospedale. Qualcuno osserva il display delle macchine
fotografiche digitali, osservando le foto scattate sul luogo in cui una donna si è liberata di tre poliziotti
ed è fuggita: automobili con le portiere spalancate come porte dell’inferno; sangue dappertutto, volti
costernati. Intanto il commissario Esposito, avvolto in un impermeabile bianco, esce da una uscita secondaria,
indossa un casco, monta alle spalle di Ferro, si allontana a velocità folle sulla moto rombante
stringendosi al corpo muscoloso del centauro.
°°°
Edoardo Maria, stravaccato sul divano della nuova casa, tenta di collocare tra i ricordi inutili gli ultimi
eventi. Si crocifigge; sa che quella donna continuerà a disseminare morte, se non sarà fermata. Sente
che sta per accadere qualcosa. E squilla il telefono: “Commissario, sono il sostituto procuratore Bellacosa.
So che non è il momento, ma devo anticipare che le sarà affiancata una investigatrice per l’inchiesta che
sa: la dottoressa Alexis Kimberly Nicoletti. Malgrado i due nomi è italianissima. Ah, non è per sfiducia:
si tratta di aggiungere una sensibilità diversa e integrare le sue forze, minate dagli ultimi eventi”.
Esposito farfuglia qualcosa tra la bestemmia e la spedizione a quel paese; riattacca. Un nuovo trillo
gli spacca il cranio: “Chi è?”.
“Sono Miriam”.
Rivede i capelli biondi della moglie, ne risente l’odore e il tepore del corpo nudo. Atteggia le labbra
al sorriso; gli si estingue subito: “Edoardo, butto tutto dal balcone o mandi qualcuno a prendere le tue
cose?”.
Si limita a un: “Provvederò”. Si lascia andare: le cattive notizie sono giunte tutte. Invece no. Il telefono
squilla ancora: “È il commissario Esposito?”.
“Si”.
“Non ci crederà: sono il mago Pratt. La disturbo per riferirle un fatto. Nello spettacolo di ieri, ho
scelto i sette o otto che avrebbero dovuto sottoporsi a esperimenti di ipnosi. Tra questi il mio socio
accondiscendente. Proprio lui è andato in trance, dicendo cose che potrebbero servirle”.
“Senta, non è il momento adatto…”.
“Non è uno scherzo. Ascolti e valuti. Ha detto: Ines, Sofia, vedo sangue, un’auto che vola, un colpo
sparato alla schiena, tafferugli…”.
“Cose dette da giornali e televisioni…”.
“C’è altro. Ha proseguito: fratelli gemelli, il commissario si suicida, la donna svanisce nel nulla”.
“Solo farneticazioni prive di senso”.
“Senta, domani sera sarò di nuovo qui per l’ultimo spettacolo. Venga, magari succederà qualcosa di
utile”.
“Dove?”.
“Al teatro Garibaldi, ore ventuno”.
Qualche attimo dopo sta per appisolarsi; suonano alla porta. Solo allora si ricorda della intervista
che ha promesso. La giornalista attacca con domande impietose sul fallimento delle indagini e infine:
“Ma un uomo fascinoso come lei, si concederà pure qualche distrazione o no?”.
“Si: domani andrò a vedere uno spettacolo di magia al teatro Garibaldi”.
°°°
Esposito dorme. Il telefono lo sveglia: “Sono io”.
“Io chi? Lo dica altrimenti le sparo in bocca. Troverei un modo di farle pervenire la pallottola rovente
nell’ugola…”.
“Ne sono certa”.
“Lo dica, altrimenti riattaccherò”.
“Io, l’unica donna che cerca. Ho visto l’intervista: andrà a teatro. Ci sarò anch’io”.
“Uhm, mi prende per il culo. Facciamo un passo indietro. Me lo dice chi è? Le farò pervenire un fascio
di rose rosse…”.
“Adesso ragiona! Accetterò le rose, se le porterà lei. L’aspetterò a casa, come sono: nuda. Sa, il rosso
si adatta bene al nero dei miei peli”.
“Non ho voglia di perdere tempo. Su, lo dica”.
“Sono io, quella che ti sparerà tra gli occhi”.
Il silenzio tombale viene rotto dal clic del telefono.
°°°
Sofia siede dietro Esposito, che la cerca con lo sguardo. Quando si gira supera il tipo dai tratti femminei,
con baffetti e occhi neri. Individua solo donne accompagnate da uomini panciuti. Il profumo
che avverte è lo stesso indossato da Miriam. Lei non c’è. Le luci si spengono per la terza volta; il sipario
si apre sulle note di Vivaldi: Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonæ voluntatis. L’uomo
alle spalle di Esposito si dirige verso i camerini, mentre il mago Pratt fa apparire carte e rose rosse.
Tutto danza intorno al suo corpo, sotto l’influsso di lievi movimenti di mani.
Non sa che sta per morire.
Esposito sente che deve osservare l’uomo seduto alle spalle. Si gira. Non c’è più; neppure il suo
odore, sostituito da quello di morte.
 

 

14. INES, INES, INES… - 21/01/09
Finito il suo numero il mago Pratt, molto lentamente, prende la via del camerino.
Ad aspettarlo c’è Kiran, il fachiro indiano.
Appena dentro si salutano cordialmente e il mago Pratt chiede all’amico:
“Lo sai anche te quello che succederà questa notte, vero?”
“Si, è scritto nelle stelle e nessuno potrà cambiare il corso degli avvenimenti”
“Hai già chiamato i gemelli?”
“Non ti preoccupare saranno qui tra poco…”
Non fa in tempo a finire la frase che bussano alla porta.
“Che ti dicevo?”
Appena Pratt apre la porta una furia scatenata lo spinge all’interno puntando la canna di una pistola
contro la sua fronte.
E’ un tipo dai tratti femminei, con baffetti e occhi neri, non fa in tempo a fare niente che una
voce femminile lo apostrofa:
“E bravo il mago Pratt, lo sai che dovrò ucciderti?”
Dicendo così si strappa i baffi posticci, si toglie il cappello e un volto di donna appare in tutta la
sua bellezza.
“Certo che lo so, è scritto nelle stelle, ma non ti servirà a niente.”
“E allora se è scritto nelle stelle perché non sei fuggito?”
“Non c’è differenza finire la mia vita per colpa di una pallottola, di un’auto che t’investe o di un
quadro che ti cade in testa.”
“Bene, allora vorrà dire che oggi io sarò il tuo destino!”
“Tu sei soltanto un’ingenua. Credi di essere la padrona del mio destino, ma non sai niente del
tuo, e soprattutto non sai niente di quello che succederà questa notte.”
Tutto d’un tratto vede Kiran tranquillamente seduto, e mentre continua a puntare la pistola contro
Pratt si avvicina al fachiro.
“Ma tu non eri in televisione qualche giorno fa?”
“No Silvia, io ero solo nella tua televisione!”
“Come fai a sapere il mio nome?”
“A dire il vero il tuo nome è Ines, non è così?”
“Ma chi cazzo sei?”
“Non importa chi io sia, l’importante è che io ti riporterò da dove sei venuta!”
“Ma che dici…”
Da dietro la porta, appena accostata, l’ispettore Esposito ascolta il colloquio che si sta svolgendo
nel camerino del mago. Subito impugna la pistola, ma aspetta ad entrare perché Pratt si trova in
mezzo, fra lui e Sofia.
Dopo un attimo di pausa la voce di Kiran si fa maestosa:
“Questa notte smetterai di essere Sofia e tornerai nei panni della brava Ines.
Pensavi di ricevere rose rosse, di uccidere ancora, di vivere una vita avventurosa ed emozionante
ma ti sbagli di grosso. Questa sera il tuo unico regalo sarà il ritorno a una vita noiosa, comune, senza
emozioni, senza paure, senza la voglia di amare e odiare. Vedrai, rimpiangerai me, Pratt, tutti quelli
che hai assassinato, tutte le cazzate che hai fatto. Rimpiangerai questi luoghi, il tuo borsone pieno di
soldi e la tua dannata pistola. Rimpiangerai persino l’ispettore Esposito: tuo fratello!”
Sofia non ci capisce più niente. Che c’entra adesso l’ispettore Esposito? E poi lui si chiama Esposito,
io invece Bignoni.
Lo sguardo di Kiran si fa sempre più invadente e la sua voce romba come i tuoni in un temporale.
“Lo sai che siete nati lo stesso giorno, vero? Guarda caso nello stesso ospedale, Il San Mattia,
non è così? Vuoi sapere anche a che gruppo sanguigno appartenete, o preferisci fare un esame del
DNA?”
L’ispettore Esposito, da dietro la porta, pensa fra se e se…
“Ha capito tutto, è solo un trucco per cercare di ipnotizzare la Bignoni. E ci sta pure riuscendo
quel paraculo…”
In cuor suo vorrebbe ascoltare ancora il fachiro ma la Bignoni è distratta e quello è il momento
migliore per intervenire.
Silvia è quasi in trance e all’apparenza ha allentato ogni controllo.
Con uno spintone spalanca la porta ma lei è ancora lucida e quando l’ispettore apre la porta si
gira e fa fuoco, lui prontamente risponde.
Il mago Pratt è il primo a cadere a terra. Seguono altri spari e contemporaneamente l’ispettore e
Sofia si accasciano al suolo a pochi centimetri di distanza. L’unico a non essere colpito è Kiran.
Tutto si svolge in un attimo, e adesso che Sofia ed Esposito sono vicinissimi, si guardano intensamente
negli occhi.
La vita sta sfuggendo dai loro corpi ma adesso capiscono che Kiran aveva ragione. Prima che sia
tutto finito, mentre le loro mani si intrecciano, loro si carezzano con uno sguardo e si baciano con
un sorriso . Una lacrima lentamente si fa strada nei viali della tenerezza ma neanche loro sanno se è
di dolore o di felicità
Gli occhi, il naso e la bocca di Sofia sono identici a quelli di Esposito.
Sembrano riflessi in uno specchio, soltanto che da una parte c’è la versione femminile, e nell’altra
la versione maschile.
Accanto a quello strano specchio c’è un grande televisore.
Con le ultime forze la donna sgrana gli occhi sul video da cinquanta pollici trasecolando; poi si
concentra sullo spillone e la mano del fachiro. Analizza il riflesso sinistro della luce sul metallo deducendo
la durezza delle lame affilate e la loro capacità a infliggere ferite drammatiche.
Lo sguardo di fuoco dell’indiano si accende ulteriormente e comunica che sta per accadere qualcosa
di terribile. Un brivido le percorre la schiena come fosse in preda ad una improvvisa e aggressiva
febbre mortale, quando inaspettatamente l’uomo in turbante apre la bocca e lecca lentamente la superficie
liscia a specchio.
Una voce fuori campo la distrae.
Ines, Ines, Ines…
“Insomma Ines, ma ti vuoi svegliare? Non pensi sia ora di andare a letto?”
“Scusa Simone, ma ho avuto un incubo.”
“Non ci pensare, andiamo a letto.”
“No Simone, vai te, io ti raggiungo dopo”
“Ma che fai mi lasci solo?”
Ines scrolla le spalle, si alza, spegne la televisione, afferra la borsa ed esce.

 

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