La vita vince sempre

 

                                                                                                                                             

 

Ci sono momenti in cui tutto sembra crollarci addosso, dove la malinconia ci assale e le lacrime non si fermano. Momenti che ci tolgono la voglia di sorridere, di vivere, di amare e di pregare il nostro Dio, e non importa se siamo cristiani, mussulmani, ebrei, induisti, buddisti o atei.

Ci sono momenti che vorremmo cancellare dal quaderno dei ricordi. Momenti colorati di buio, tristezza e malumore. Momenti in cui il cuore si frantuma in mille piccoli pezzi. Momenti in cui l’arcobaleno è fatto di un solo colore: il nero, e non c’è sole che riesca a scaldare e illuminare il nostro cammino.

Io diciassette anni fa mi sentivo così.

Ultimo fra gli ultimi, triste di un dolore che qualsiasi specchio rifletteva, avevo sempre occhi lucidi, pugni stretti e una forte rabbia nel cuore.

In quei giorni passavo intere giornate in ospedale e avevo preso confidenza con la morte come fa un soldato al fronte. Non ero io a rischiare la pelle, ma mia figlia Chiara. La sua nascita prematura mi aveva portato negli abissi della disperazione. In quei giorni di sconforto passavo le ore in attesa di una notizia che potesse dare futuro al mio sogno di paternità e in quella situazione anche nessun miglioramento era una buona notizia. L’aspettativa di vita in quel reparto di terapia intensiva era di poche settimane e un’incubatrice su quattro era destinata a trasformarsi in un sarcofago per piccoli angeli senza ali.

Le ore passavano lente e i giorni erano interminabili, ma fra una buona e una cattiva notizia Chiara continuava ostinatamente ad esserci.

In quei giorni mi sentivo come uno che aveva vinto il primo premio al superenalotto della sfortuna.

Quando la mamma rimase incinta la ginecologa ci avvisò che c’era una possibilità su centomila che subentrassero problemi alla nascita. Una su centomila era un rischio che si poteva correre, ma la ruota della sfortuna aveva puntato il dito su Chiara e adesso era nella sua incubatrice piena di elettrodi e tubicini, assistita da un respiratore automatico.

Ogni respiro poteva essere l’ultimo e con esso ogni sogno di portare Chiara a casa poteva essere infranto in qualsiasi momento.

Non serviva pregare, sperare, prendersela con il destino o con i medici. Lei era lì a combattere da sola la sua battaglia per la vita. L’impotenza per non poterla aiutare era la cosa che più mi faceva star male.

Comunque i giorni passavano e Chiara rispondeva bene alle terapie.

Quando fu dimessa un medico poco delicato ci disse bruscamente che avrebbe passato la sua vita su una sedia a rotelle incapace di intendere e di volere.

A quel punto non era soltanto la sua vita ad essere spezzata, ma anche quella di tutte le persone che le erano vicine.

Avevo tanta rabbia dentro e la reazione più semplice sarebbe stata quella di affogarla nel dolore, ma capivo che non avrebbe fatto bene a nessuno, meno che mai a Chiara. Dopo mesi di pellegrinaggio fra ospedali, medici, professori e terapiste cominciai a vedere un mondo a me sconosciuto fatto di malattia e disabilità ma anche di speranza e dignità.

Il mio cucciolo biondo cresceva e, anche se in ritardo, seguiva le tappe di tutti gli altri bambini.

Lo spazio che qui mi è stato concesso è poco ma Chiara ha iniziato a gattonare a un anno e a fare i primi passi a tre anni, il suo lessico non era dei migliori, ma grazie alla logopedista, alla psicomotricista, alla fisioterapista e alle persone che le ruotavano intorno cominciai a capire che non avrebbe passato la sua vita su una sedia a rotelle incapace di intendere e volere.

La sua forza, la sua determinazione, la sua voglia di giocare, di correre, di relazionarsi con gli altri e di vivere era tanta, e questo sicuramente l’avrebbe aiutata a raggiungere una sua autonomia.

Fu in quel periodo che cominciai a capire il vero senso della vita. Ormai, per me, non contava più il benessere economico, materiale o sociale ma cominciavo a capire che la cosa più importante era la salute e che senza di essa non si poteva far nulla.

Pian piano raggiunsi un mio equilibrio e questo mi aiutò molto nel rapporto con mia figlia.

Ormai non era più l’odio nei confronti del destino o di un Dio poco benevolo che animava ogni mia azione, ma l’amore.

L’amore per me stesso, per mia figlia, per gli altri, per la vita e per il mondo intero.

Cominciai a gioire per un sorriso, per la carezza di un raggio di sole, per il profumo di un fiore o soltanto per un piccolo aiuto dato o ricevuto. La mia tranquillità e serenità aiutava tantissimo anche Chiara e quando eravamo insieme c’era sempre un’aria di festa e si respirava amore a un miglio di distanza.

Non è che tutto sia avvenuto da un giorno all’altro. Ci sono voluti due anni fatti di introspezione, autocritica, voglia di crescere e cambiare. Due anni passati nel buio, nella rabbia, nel dolore e nella disperazione. Alla fine ne sono uscito cambiato, migliorato e con tanta voglia di dare.

Sapevo che per far amare la vita a Chiara avrei dovuto amarla prima io.

Con il tempo i suoi limiti e le sue “disabilità” non li vedevo più come una cosa negativa, ma come parte di lei.

Io accettavo lei così come accettavo ogni sua eccellenza e ogni suo limite.

La vita non è meno bella se hai delle abilità limitate. E’soltanto diversa.

E poi, chi è che non ha limiti?

Sappiamo tutti nuotare, cavalcare, andare in moto, fare immersioni e scalare montagne?

Nessuno di noi ha ansie, paure, fisime o comportamenti “anomali”?

La vita è bella anche perché siamo tutti diversi, e anche se alcuni sono limitati dai loro corpi o dalle loro menti, non è per questo che sono inferiori o non hanno diritto alla loro dignità di persone.

Negli anni passati nelle anticamere di studi medici ho capito che le persone “disabili” sono più sensibili, sanno amare di più la vita, la sanno apprezzare e sanno spremere ogni goccia di felicità dai loro cuori.

Adesso mi sento una persona fortunata e considero Chiara una miracolata dalla vita.

Lei ora ha 17 anni e convive abbastanza serenamente con i suoi limiti. Il nostro rapporto è pieno di complicità, affetto e voglia di vivere. A volte bisticciamo, ma subito dopo facciamo pace, chiacchieriamo ed esterniamo i nostri bisogni.

Il percorso per arrivare ad amare la vita non è stato facile e vorrei offrire la mia esperienza a chi si trova in una situazione di disagio. Non parlo solo dell’handicap, ma mi rivolgo agli ultimi di questa società, ai diseredati del mondo, a chi non ha più niente se non la loro dignità, a quelli che vedono il mondo con gli occhi della disperazione.  

E’ a loro che vorrei dire:

cercate un vostro equilibrio, cercate di vedere quello che di positivo la vita vi ha dato, vi sta dando e vi darà. Prima di chiedere aiuto cercate di aiutare voi stessi e gli altri. Non chiudetevi nelle stanze grigie del dolore e sorridete alla vita perché la vita vi sorriderà sempre, anche nei momenti più bui, quando meno ve l’aspettate. Potrà essere un sorriso, un gesto affettuoso, un aiuto materiale, una carezza o una parola di conforto, ma vedrete che dopo ogni tunnel buio c’è sempre la luce.

Il dolore fortifica lo spirito e la persona che uscirà da quel tunnel sarà sempre migliore di quella che c’è entrata.

Ormai debbo concludere ma voglio dirvi un’ultima cosa:

nel gioco della nostra esistenza le carte migliori sono la solidarietà, l’amicizia, la fratellanza, la gentilezza, il sostegno, l’intelligenza, l’apertura mentale, la disponibilità, la tolleranza, la pazienza, la comprensione, la partecipazione, l’altruismo e soprattutto l’amore.

Da oggi in poi andiamo al tavolo verde e consapevoli della nostra forza impariamo a giocarcele tutte bene, la vita sarà la nostra inseparabile compagna di gioco e noi saremo sempre vincenti.

 

 

 

 

Mancano i Plug-in per ascoltare la musica

Pagina Iniziale

Aggiungi  ai preferitiInvia postaWindows Media PlayerLinks